Reportage vs Storytelling

Nel comune piacere di scegliere una forma di fotografia che più si addice al nostro gusto o anche all’esigenze del momento, che sia un evento, un matrimonio, un’escursione o meglio ancora un viaggio, è diffusissimo sentir parlare di “fotografia di reportage”.

Il reportage, nato per esigenze legate alla necessità di documentare una testimonianza diretta, come le pagine di un diario o le memorie di un viaggio, nel secondo dopoguerra viene affiancato da un ricco corredo fotografico. Quindi un vero e proprio racconto, una tecnica narrativa più che una metodologia.

Quello che a me interessa ora è il mettere in relazione il “reportage” con lo “storytelling”.

Lo storytelling è una metodologia che usa la narrazione come strumento elaborato dalla mente per inquadrare gli eventi della realtà e spiegarli secondo una logica di senso. Che lavora affinché si generi un confronto dialogico che coinvolge contenuti, emozioni, intenzionalità e contesti.

Il narrare fa parte dell’essere umano, le emozioni e il modo in cui lo si fa, rientrano nella personalità del narratore. Lo si fa attraverso il pensiero narrativo, che organizza  l’esperienza soggettiva ed interpersonale, ma che deve essere tradotto affinché si possano costruire forme di comunicazioni.

Quindi necessita di un discorso narrativo che rende il pensiero comprensibile, comunicabile e soprattutto ricordabile. Per essere efficace, questo deve possedere delle caratteristiche specifiche: sequenzialità narrativa (in un racconto non sempre si segue l’esatta cronologia dei fatti); particolarità (evidenziare dettagli che nella realtà possono sembrare poco o per nulla interessanti); intenzionalità (il caso si ma solo se ben contestualizzato); verosimiglianza (l’ascoltatore deve nutrirsi di percezione); componibilità (intreccio delle varie parti); referenzialità e appartenenza ad un genere.

Senza entrare nello specifico dello studio e dell’applicazione di questa metodologia, mi basta quanto detto fin qui, per riflettere sulla relazione proposta all’inizio.

Io credo che l’errore più comune e diffuso, sia da parte di chi propone fotografia di reportage che di chi ne fruisce, sia quello di fermarsi al pensiero narrativo. Creare scatti con emozione e personalità non è un errore, anzi è apprezzabile ed anche auspicabile, ma creare una storia è tutt’altra roba.

Il creare una storia dovrebbe prevedere lo studio di un discorso narrativo. Un telaio di caratteristiche da tenere a mente ed utilizzare durante in servizio, ma che poi devono essere riconoscibili sul lavoro finale. Un lavoro comprensibile, comunicabile e soprattutto ricordabile, capace di essere efficace.

Joe Lambert a tal proposito individua sette elementi che aiutano in un approccio personale allo storytelling, ed io aggiungerei al reportage: punto di vista personale, una struttura della narrazione che propone domande e fornisce risposte non banali e scontate, inserimento di contenuti emotivi e coinvolgenti, un’efficace economia della narrazione (si può dire molto con poco), un ritmo adeguato alle modalità narrative.

La storia non deve necessariamente avere un lieto fine, invece elemento importante e che accresce l’attenzione nell’utente è la percezione di autenticità.

La vitalità è elemento fondamentale per una buona storia.

© piero colafrancesco